giovedì 6 aprile 2023

Pensieri

 

Immaginario ed Estetica




[…] nel piacere estetico si attua la liberazione del soggetto percipiente dai ceppi della prassi quotidiana, attraverso l’immaginario. Nel processo primario dell’esperienza estetica l’immaginario non costituisce ancora un oggetto ma – come Jean-Paul Sartre ha mostrato – un atto di rappresentazione della coscienza tendente a distanziarsi nella produzione di una forma. La coscienza immaginativa deve negare l’oggettività già data, per poter essa stessa produrre, a seconda che i simboli estetici appartengano ad un testo verbale, visuale o musicale, una forma costituita di parole, immagini o suoni. Il piacere estetico, nel quale la coscienza immaginativa si scioglie dalla costrizione delle abitudini e degli interessi, consente proprio con ciò all’uomo prigioniero della sua attività quotidiana di liberarsi per altre esperienze1.

Abbiamo già visto come l’immaginario sia una funzione fondamentale nella costituzione della vita umana e che senza di esso la varietà di produzioni di cui ciascuno di noi beneficia, o di cui è vittima, non avrebbero la possibilità di esistere.

Ma, in relazione a Stanislas Breton, abbiamo parlato anche di Estetica, la disciplina filosofica che si occupa degli elementi che ci conducono a definire qualcosa nei termini di “bello” o di “brutto” “piacevole” o “sgradevole” e che si occupa in generale di tutto ciò che viene definito “arte” o “artistico”.

È evidente che, senza la funzione immaginativa, l’Estetica non esisterebbe; ma abbiamo indicato nell’Estetica la possibilità di un percorso verso il Principio: come accade questo?

Credo che l’immaginario sia originariamente “estetico”, tenda cioè a una sistemazione delle percezioni, delle sensazioni, delle emozioni, dei ricordi, in forme tali da configurare un tutto armonioso che sia in grado di rispondere anche alle esigenze biologiche, sociali e personali che sono venute stratificandosi nella storia di ciascuno e dei popoli.

Nel tempo questa capacità immaginativa originaria si è specializzata in diverse direzioni, alcune più direttamente pragmatiche, potremmo dire tecnico-scientifiche, altre basate sulla possibilità di riflessione intorno a determinati temi, come la filosofia, la matematica, la letteratura, la psicologia, la teologia.

Intorno ai diversi fronti di applicazione si sono sviluppati tipi di immaginario legati a scopi differenziati e non sempre collegabili tra loro, anche se si nota la tendenza a superare i muri disciplinari per attuare confronti ampi e approfonditi. L’interesse comune rimane comunque quello originario: la vita dell’uomo sulla terra che abita e le relazioni che può instaurare con ciò che lo circonda.

La molteplicità degli immaginari genera però anche serie di interessi spesso in conflitto tra loro: economici, politici, ideali, religiosi: la conflittualità immanente alla nostra esistenza è un dato incontrovertibile. I diversi immaginari vengono armonizzati in vista di obiettivi limitati, parziali, settoriali; non viene negato il lato estetico dell’immaginario, ma questo viene sottomesso ad interessi particolari: vi è quindi un immaginario capitalista o proletario, un immaginario democratico o sovranista, bellicista o pacifista, cattolico o musulmano, carnivoro o vegetariano, e potremmo andare avanti all’infinito. Ognuno di questi immaginari è in grado di giustificare la propria esistenza e di mostrare il disegno armonico che lo sottende, e che quindi ne giustifica l’esistenza e l’adesione, rendendolo necessario per chi lo pratica e in disaccordo col diverso.

I contrasti paiono insanabili perché ciascuno si fonda su una pretesa armonia di fondo che soddisfa coloro che la praticano. Non vi è quindi soluzione? Dove trovare un luogo comune, in cui non si debbano mettere in gioco necessariamente i diversi immaginari creando conflitti, in cui l’immaginario mostri la propria costituzione e quindi ci riporti alla sua origine?

Lo spazio che ogni civiltà ha dedicato all’arte può essere questo luogo comune, l’arte di ogni tempo e luogo è ciò che ci riconduce all’origine, al senso dell’esistere.

Quando guardiamo la facciata di una casa, un’automobile parcheggiata, un albero in un prato, possiamo essere attratti per un momento da un’esperienza estetica, a cui segue immediatamente un giudizio oppure un trascorrere indifferente. Ma se la facciata della casa è stata progettata da Gaudì, l’automobile è una Lamborghini e l’albero è una sequoia secolare, la nostra attenzione si sofferma maggiormente, sospendiamo il tempo delle nostre occupazioni per dedicarlo a far sì che le immagini che abbiamo incontrato diventino parte di noi e depositino in noi una domanda che spesso rimane inespressa: perché è così speciale? Il fatto straordinario è che, mentre a tutte le altre domande possiamo rispondere in modo pressoché esaustivo, di fronte a un prodotto esteticamente attraente, artefatto o naturale, non riusciamo a dire delle parole di spiegazione soddisfacenti. Rimane sospesa ad essi l’impossibilità di una risposta, si crea in noi una specie di spazio vuoto che dobbiamo lasciare sospeso nella sua vacuità, che si ripete ogniqualvolta qualche cosa ci colpisce per la sua armoniosa fattura.

Questa esperienza dovrebbe darci disagio, indurci a sfuggirla; invece accade il contrario: ci rechiamo nei musei per ammirare opere d’arte, nei teatri per ascoltare concerti o seguire rappresentazioni e per fare ciò utilizziamo del tempo che sottraiamo al lavoro, al sonno o al nutrimento, insomma a ciò che riteniamo necessario, e in aggiunta a volte devolviamo per questo delle risorse economiche non indifferenti.

In realtà tutto ciò potrebbe essere considerato superfluo, ma sappiamo invece che poter fare esperienze estetiche soddisfacenti è necessario addirittura per la nostra sopravvivenza, perché questo superfluo nutre la nostra anima: neuropsichiatri e psicologi lo confermano continuamente. Il nostro immaginario chiede di essere messo in contatto con qualcosa che plachi il suo bisogno estetico, fondato su una ricerca di armonia.

Su questo si basano in gran parte le pubblicità che vogliono indurci al consumo di un prodotto o a determinati comportamenti: ci fanno balenare la possibilità di una esperienza di armonia e di felicità.

Abbiamo visto che vivendo queste necessarie esperienze non sappiamo rispondere alla domanda che istintivamente l’esperienza ci pone: perché una cosa suscita il nostro stupore o la nostra ammirazione? L’impotenza che proviamo lascia in noi un senso di vuoto, di inafferrabile e incomprensibile.

Ma possiamo fare un passo ulteriore: se ci mettiamo di fronte a un’opera d’arte affermata, dopo aver esaurito tutte le analisi estetiche e storico-sociologiche connesse, ci rendiamo conto che rimane un residuo inespresso, come un’emozione, un battito veloce del cuore, un non so che che rende quell’opera in qualche modo affine a qualcosa in noi. Se cerchiamo nel soggetto dell’opera, che può essere religioso o profano, figurativo o astratto, il senso che determina il nostro atteggiamento, ci rendiamo conto che qualsiasi spiegazione in merito è insufficiente. Che cosa allora ci spinge a voler mettere in contatto il nostro immaginario con opere che spesso non hanno alcuna utilità pratica se non il loro esistere?

Credo sia la loro armonia, che il nostro immaginario entri in risonanza con l’armonia presente nell’opera e si crei una sorta di legame, di comunione tra l’opera e il fruitore. L’opera porta il nostro immaginario dentro di sé, ci fa partecipi di una rappresentazione che risveglia il nostro bisogno di armonia e lo mette in sintonia con essa.

Questa esperienza rende evidente il nostro bisogno profondo, lo richiama, lo coinvolge, lo esalta ma non lo satura. L’esperienza estetica porta in primo piano il bisogno latente che ci accompagna sempre ma che non sempre giunge a coscienza: il bisogno di armonia; contemporaneamente ci fa sapere che non vi è nulla, anche se eccelso, che possa colmare pienamente il nostro bisogno, perché esso va cercando continuamente in altro una nuova soddisfazione.

Nell’opera si evidenzia quindi il nulla su cui dobbiamo soffermarci, perché questo nulla ci rivela la nostra originaria impossibilità di appagamento e ci mostra come l’armonia continuamente ricercata dal nostro immaginario non risiede compiutamente in noi stessi né in alcuna opera che possiamo conoscere. Siamo portatori di un legame con qualcosa che non siamo in grado di racchiudere nelle nostre definizioni, qualcosa che sta oltre le nostre capacità di comprensione e che pure si mostra esistente proprio nella sua assenza, nel non essere a portata della nostra mano, del nostro possesso.

L’Estetica quindi ci rende consapevoli che il nostro immaginario ha il suo senso in questa esperienza originaria del nulla, nella quale troviamo la fonte indicibile di cui esso si nutre.

La necessità di esperienze esteticamente significative le rende luogo privilegiato in cui si affaccia l’origine comune di ogni immaginario, il Principio ineffabile che le sottende e che viene continuamente richiamato in esse: ecco perché l’Estetica non è può essere considerata una disciplina cadetta della Filosofia, ma ne costituisce, particolarmente nella nostra civiltà dell’immagine, il fondamento da cui partire per l’indagine sul senso della vita umana.

1H.R. Jauss, Apologia dell’esperienza estetica, Einaudi, Torino. 1985, 10-11.

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