Immagin-azione
TAT-RO
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Tat-ro
si si guardò intorno, incredulo.
Tutto era come prima: la rosa
gialla piantata in primavera dalla mamma ondeggiava al vento lieve,
dondolandosi con moto calmo e uguale e l’ape che le ronzava intorno
nel caldo pomeriggio estivo ancora non era giunta a posarsi sulla
corolla vellutata.
Anche l’erba su cui era accucciato, sotto
il cespuglio di sambuco, per nascondersi ai compagni che invano lo
cercavano, era la stessa di poco prima: verdastra e rinsecchita per
l’arsura eccessiva di quell’anno torrido.
La casa, di cui
poteva scorgere un angolo color rosa dal cantuccio in cui si era
rintanato, era contornata di voci di bimbi che gridavano e si
rincorrevano intorno ai muri, chiamandosi e urlando senza
posa.
Chiamavano anche lui, Tat-ro, per concludere il solito
gioco e magari iniziarne un altro e poi un altro, finché il rumore
di stoviglie dalla finestre socchiuse non rivelasse che si avvicinava
l’ora della cena.
Ma Tat-ro non riusciva a rispondere.
Di
colpo tutto questo mondo di cose e di facce, di rumori e di odori, di
cui faceva parte e con cui aveva riso felice, si sottraeva a lui, lo
abbandonava, lasciandolo come sospeso in un solitario e improvviso
silenzio.
Tutto pareva lontano, non più suo, come visto da un
altro, quasi che il tempo per lui si fosse fermato e l’istante di
adesso si prolungasse indefinitamente, mentre il suo mondo fatto di
nomi e luoghi continuasse ad andare veloce, scandendo il solito tempo
col sole.
Non che riuscisse a pensare tutto questo,
semplicemente accadeva.
E Tat-ro era felice.
Non che prima
fosse triste o tormentato, o insoddisfatto o annoiato: anche prima
stava bene.
Ma adesso era felice.
Si sentiva assolutamente
a posto e completamente felice.
Non avrebbe saputo dire come
perché quando quanto da dove.
Stava lì, immobile, sospeso a
questo silenzio nell’afa aranciata, cosciente di ogni particolare
di ciò che lo circondava, come se qualcuno presentasse al suo
sguardo ad una ad una le meraviglie in cui era immerso da sempre,
illuminandole di grazia.
“Tat-ro! Vieni fuori! Ti ho
visto!”
La voce di sua sorella Romi lo scosse, spingendolo
fuori dal suo improvvisato rifugio.
“Eh, va be’, vengo!”,
gridò di rimando, cercando di prolungare nei movimenti lenti il
gusto di quel momento.
Quando fu in vista della sorella le fece
la solita boccaccia e poi si lanciò in una corsa furibonda verso la
toppa, gridando a pieni polmoni: “Non mi prendi! Non ce la
fai!”
Aveva undici anni Tat-ro la prima volta che entrò nel
silenzio, e nessuno se ne accorse: solo sconcertava a volte la
delicatezza con cui avvicinava le bestie e le piante che amava, ma
tutto veniva coperto dalla sua risata chiassosa e invadente.
Se
ne andò nell’ora più quieta, al crepuscolo, mentre soltanto i
grilli nei prati intorno alla strada frinivano leggermente e le
ultime cavallette cercavano un rifugio per la vicina notte.
Qualcuno
vide un punto che assomigliava a Tat-ro scomparire all’orizzonte
nell’oscurità mitigata dall’argentea luna, ma nessuna voce osò
più parlare di lui.
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