domenica 27 novembre 2022

Immagin-azione

 
Racconti della Soglia

TAT-RO

 


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Tat-ro si si guardò intorno, incredulo.
Tutto era come prima: la rosa gialla piantata in primavera dalla mamma ondeggiava al vento lieve, dondolandosi con moto calmo e uguale e l’ape che le ronzava intorno nel caldo pomeriggio estivo ancora non era giunta a posarsi sulla corolla vellutata.
Anche l’erba su cui era accucciato, sotto il cespuglio di sambuco, per nascondersi ai compagni che invano lo cercavano, era la stessa di poco prima: verdastra e rinsecchita per l’arsura eccessiva di quell’anno torrido.
La casa, di cui poteva scorgere un angolo color rosa dal cantuccio in cui si era rintanato, era contornata di voci di bimbi che gridavano e si rincorrevano intorno ai muri, chiamandosi e urlando senza posa.
Chiamavano anche lui, Tat-ro, per concludere il solito gioco e magari iniziarne un altro e poi un altro, finché il rumore di stoviglie dalla finestre socchiuse non rivelasse che si avvicinava l’ora della cena.
Ma Tat-ro non riusciva a rispondere.
Di colpo tutto questo mondo di cose e di facce, di rumori e di odori, di cui faceva parte e con cui aveva riso felice, si sottraeva a lui, lo abbandonava, lasciandolo come sospeso in un solitario e improvviso silenzio.
Tutto pareva lontano, non più suo, come visto da un altro, quasi che il tempo per lui si fosse fermato e l’istante di adesso si prolungasse indefinitamente, mentre il suo mondo fatto di nomi e luoghi continuasse ad andare veloce, scandendo il solito tempo col sole.
Non che riuscisse a pensare tutto questo, semplicemente accadeva.
E Tat-ro era felice.
Non che prima fosse triste o tormentato, o insoddisfatto o annoiato: anche prima stava bene.
Ma adesso era felice.
Si sentiva assolutamente a posto e completamente felice.
Non avrebbe saputo dire come perché quando quanto da dove.
Stava lì, immobile, sospeso a questo silenzio nell’afa aranciata, cosciente di ogni particolare di ciò che lo circondava, come se qualcuno presentasse al suo sguardo ad una ad una le meraviglie in cui era immerso da sempre, illuminandole di grazia.
“Tat-ro! Vieni fuori! Ti ho visto!”
La voce di sua sorella Romi lo scosse, spingendolo fuori dal suo improvvisato rifugio.
“Eh, va be’, vengo!”, gridò di rimando, cercando di prolungare nei movimenti lenti il gusto di quel momento.
Quando fu in vista della sorella le fece la solita boccaccia e poi si lanciò in una corsa furibonda verso la toppa, gridando a pieni polmoni: “Non mi prendi! Non ce la fai!”
Aveva undici anni Tat-ro la prima volta che entrò nel silenzio, e nessuno se ne accorse: solo sconcertava a volte la delicatezza con cui avvicinava le bestie e le piante che amava, ma tutto veniva coperto dalla sua risata chiassosa e invadente.
Se ne andò nell’ora più quieta, al crepuscolo, mentre soltanto i grilli nei prati intorno alla strada frinivano leggermente e le ultime cavallette cercavano un rifugio per la vicina notte.
Qualcuno vide un punto che assomigliava a Tat-ro scomparire all’orizzonte nell’oscurità mitigata dall’argentea luna, ma nessuna voce osò più parlare di lui.

 



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