Immagin-azione
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TA-PUM, TA-PUM, TA-PUM.
Il
passo regolare del viandante batteva sempre le stesse note nel
crepuscolo viola.
Non se ne distingueva la figura; solo una
consistenza più scura, sulla strada lunghissima davanti alla casa,
permetteva agli occhi di accertarsi che una presenza si muoveva
incontro alla notte, da lì verso un qualche luogo.
Non si
sapeva cosa desiderare: se un volto, magari noto, apparisse a
sconvolgere in gioia o noia il progetto dell’ora successiva o se
lasciare che restasse nell’oscurità del non conosciuto, turbando i
nostri sogni con l’immagine del suo mistero, mentre negli orecchi
suonava senza sosta quel deciso e incancellabile TA-PUM.
Ma mai,
mai, mai, avremmo immaginato ciò che accadde.
D’improvviso la
lunghissima strada ancora avvolta alla sua estremità nell’oro del
tramonto, divenne un moncherino di sentiero polveroso, sperduto in un
grande deserto e il viandante era già lì, davanti alla nostra casa,
e suonava senza ritegno il nostro campanello.
Non si poteva
fingere che non ci fosse nessuno, perché la luce dell’ingresso
proiettava all’esterno le nostre ombre, e quindi andammo alla
porta.
Quando toccammo la maniglia, tutto si fece completamente
buio e non si poteva distinguere chi o cosa avesse
suonato.
“Aprite!”
La voce imperiosa e affascinante ci
obbligò a farle posto nel nostro territorio e la curiosità di
vederne le forme, di racchiudere nei nostri occhi le fattezze di
colui o colei a cui apparteneva la voce ci spinse ad invitare il
viandante alla nostra tavola.
Speravamo così di svelarlo, per
poi coprire di parole le solite linee umane, in fondo sempre le
stesse, sebbene orrende o armoniose.
Ma dove andava il
viandante, là c’era anche il buio.
E quel settore di buio
accomodato sulle nostre sedie dei primi novecento mangiò con noi il
pane, bevve il nostro vino e ci obbligò, noi così ciarlieri, al
silenzio.
Non perché avessimo paura o imbarazzo, ma perché dal
momento in cui aveva oltrepassato la soglia della nostra casa
qualcosa era accaduto che le parole non sapevano esprimere e le
domande morivano nello stesso istante che nascevano.
Restavamo a
guardarlo, immersi in un totale incantamento, eppure assolutamente
coscienti di ogni piccolo movimento di quel buio assoluto che abitava
in quel momento la nostra sala da pranzo e che ingoiava con calma la
mela che mamma aveva sbucciata.
Ingoiava... Meglio dire che la
faceva sparire nella sua oscurità.
Una oscurità vuota di
parole, ma vibrante di ogni parola detta e indicibile, di tutti i
versi, i suoni, i canti che ogni mente potesse immaginare aggirarsi
per l’universo per essere raccolti ora qua ora là nel corso del
tempo dalle generazioni degli uomini e degli esseri.
E il tempo
stesso pareva non avere più ragione di esistere, tutto accadeva in
un’esistenza dilatata fino all’eternità e appariva sublime la
caffettiera che alzava sbuffanti volute nella cucina odorosa di
grassi, la tazza che ne accoglieva il liquido schiumante e profumato,
il gesto con cui quest’esistente dove i nostri sensi non potevano
raggiungerlo beveva con il nostro stesso piacere il caffè zuccherato
e fumante.
Poi si alzò, ringraziò per l’ospitalità
abbracciandoci uno per uno ed uscì nella notte scura.
Sopra di
noi brillavano miliardi di stelle.
Chiudemmo la porta e andammo
a dormire, esausti.
L’ indomani ciascuno di noi aprì le
imposte convinto di aver sognato.
Ma fuori, vi era solo il deserto e un moncherino di sentiero portava a casa nostra.
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