Pensieri
Stanislas Breton: profeta dell’immaginario-nulla
Dal mio articolo sulla Rivista dei padri Passionisti "La Sapienza della Croce"
Perché lo chiamiamo “profeta dell’immaginario-nulla”?
Perché già nel 19761 padre Breton aveva colto la necessità di affrontare con gli strumenti della filosofia e della teologia un argomento, l’immaginario, che pareva ancora far parte di un campo determinato della osservazione e della riflessione: l’Estetica, intesa come pensiero intorno al prodotto artistico e alle sensazioni e sentimenti ad esso correlati.
Certo, la psicologia emergente con Freud e più ancora Jung, aveva iniziato ad occuparsi in modo massiccio delle immagini presenti nei sogni o elaborate in situazioni psicologiche disturbate, oppure appartenenti al patrimonio simbolico di diversi gruppi etnici, così come emergevano dagli studi antropologici e sociologici dell’epoca: pensiamo a Eliade o a Pettazzoni.
Ma quello che appariva assurdo a padre Breton era che si operasse una separazione netta tra logos, inteso come pensiero raziocinante, e mito, inteso come espressione dell’irrazionale e dell’impossibilità di dare senso.
Il punto di convergenza di questi due ambiti gli è apparso evidente: l’immaginario è il luogo da cui entrambi prendono origine e che ne determina figure e forme.
Ma se ci poniamo di fronte all’immaginario, a quel luogo magmatico e cangiante da cui continuamente attingiamo le nostre possibilità di progetto e creatività, ci rendiamo conto che proprio lì ci è data un’esperienza destabilizzante e a volte tragica: l’esperienza del nulla.
Certo, perché l’immagine ci presenta continuamente qualcosa che non è: ciò che vedo è passato, oppure è futuro, ma anche il fatto stesso che un oggetto mi si presenti come immagine lo allontana dalla mia presa; se pure è presente, l’immagine lo allontana, lo conduce nella mia interiorità trasformandolo in qualcosa che non è, ne fa una presenza assente. Qualcosa che è e non è, qualcosa che continuamente ci sfugge e che pure ci determina, spingendoci ad una incessante elaborazione che rischia di sfiancarci e distruggerci.
Bisogna allora che, di fronte al nostro immaginario, ci rendiamo conto che non possiamo possederlo, che il suo scopo è farci rendere conto che la nostra esistenza vive anche di altro rispetto a quelli che credevamo i nostri bisogni fondamentali, che siamo fondati su un inattingibile .
Abbiamo allora tre alternative: o affondiamo nella disperazione, o viviamo occultando questa esperienza fondativa, o ne prendiamo coscienza, ponendoci con umiltà di fronte ad essa.
La terza opzione, che richiede grande determinazione e coraggio, è quella che hanno scelto i mistici, non solo della religione cristiana, e che molti artisti hanno sperimentato e tentato di esprimere nelle loro opere. Ma è anche esperienza quotidiana di persone comuni, che si affidano al mistero di cui sono stati resi consapevoli con serenità e pace.
Una teoria? No, un’esperienza, continuamente offerta, che ci educa a dimorare nel Nulla per eccesso che chiamiamo anche con il nome di Dio.
Ma la croce di Cristo, cosa c’entra?
La Croce è il paradigma magnifico ed esauriente di questa esperienza, attraverso la quale impariamo a camminare dentro la sofferenza nostra e dei nostri simili come un gesto donato e non subito, come una realtà dentro la quale si apre il mistero dell’esistere, in fraternità con tutti gli esseri2.
1S. Breton, Ȇtre, monde, imaginaire, Le Seuil, Parigi 1976.
2Da: L.A. Ceccon, L’odologia di Stanilas Breton. Dal neoplatonismo all’immaginario-nulla. Incroci e transizioni teologiche, La Sapienza della Croce, anno XXXVII N.2, Roma 2023, 141-142. (Un inavvertito refuso nella rivista indica come anno il 2022 invece del 2023.).
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