lunedì 2 ottobre 2023

 

Sentieri


Il mondo: un processo immaginativo 

 


Franco Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2010

La caratteristica più importante del linguaggio, secondo Jerison, non è tanto il suo ruolo nella comunicazione sociale quanto la sua efficacia nella capacità di evocare immagini mentali. A suo parere, gli esseri umani hanno la necessità di utilizzare il linguaggio più per raccontare storie che per dare informazioni, spiegazioni o fare richieste. Ciò è possibile perché il linguaggio si è evoluto al centro di un insieme di aree associative che permettono di integrare, al più alto livello di elaborazione, tutte le informazioni. L’uso del linguaggio, la fabbricazione degli strumenti e la consapevolezza della propria morte rappresentano negli esseri umani, antichi e moderni, una nuova modalità di rappresentazione dello “spazio percettivo” nella quale il tempo, oltre a possedere la dimensione del presente, può assumere anche la dimensione del passato e del futuro. Se, come abbiamo visto, il mondo “reale” dei mammiferi è il prodotto di un processo immaginativo, il mondo reale degli esseri umani diventa dunque il prodotto di un processo immaginativo al quadrato (p.83).

Il professor Franco Fabbro, docente ordinario di psicologia clinica presso l’Università di Udine, vanta una preparazione che spazia dalla filosofia alla formazione in ambito neurofisiologico, neurolinguistico e neuropsicologico, fino a giungere a seri studi in esegesi biblica. Si tratta quindi di una persona la cui ricerca è in grado di esprimersi con competenza nella linguistica, nella letteratura, nella religione, mettendole sapientemente in relazione con i dati scientifici più aggiornati che riguardano la conoscenza del cervello e dei suoi meccanismi.

Abbiamo riportato sopra la conclusione del capitolo 5, L’evoluzione del cervello, della prima parte del libro, Il cervello religioso. In questo capitolo veniamo condotti nei labirinti dell’evoluzione che coinvolgono i viventi e che trovano nel cervello umano delle espressioni specifiche, in cui la costruzione dell’immagine ha un ruolo fondamentale poiché fornisce la rappresentazione del mondo in cui l’essere umano deve scegliere e agire.la

Il legame imprescindibile tra linguaggio e immagine viene fortemente sottolineato in tutto il testo di Fabbro, che mostra con grande efficacia la funzione delle figurazioni immaginarie costituite dall’esperienza religiosa in diversi tempi e luoghi storici, evidenziandone la potenza evolutiva e di superamento dei limiti, oltre che di elaborazione di ambiti di cura in soggetti con sofferenza psichica.

L’immagine è quindi alla ribalta della nostra costituzione umana e il suo connubio col linguaggio deve renderci attenti e accorti nell’uso che viene fatto, consapevolmente o inconsapevolmente, di entrambi.

Nell’agorà mediatica ci si tuffa da un lato in un oceano di produzioni che presentano se stesse come degne di attenzione, come elementi di verità indiscutibili oppure come portatrici di una giustizia che ha il dono dell’assoluto, e dall’altro in una marea montante di distrazioni di massa, di fabbricanti di piaceri immediatamente consumabili, di sotterranee manipolazioni intese a fare di ciascuno di noi degli acquirenti compulsivi o dei nemici a comando da gettare nell’arena.

Nel suo testo Fabbro ci racconta anche le vie di liberazione proposte da alcune religioni e spiritualità, nelle quali il distacco dalle immagini prodotte dalla mente e la disciplina esercitata su di esse hanno un’importanza fondamentale nel dare una risposta alla domanda di senso sull’esistenza umana, ciascuna in forme e modalità differenti, legate ai tempi e ai luoghi.

Il fantasticare costituisce un velo che impedisce di porsi in relazione con il vissuto più autentico. Il principio apollineo dell’autoconoscenza richiede dunque una disciplina che comincia con l’osservazione del presente e che va oltre i fantasmi generati dalla mente per capire, come in una gestalt, noi stessi e la nostra vita. Viene anche definita come “via della lucidità” perché permette di superare una sorta di cecità esistenziale che impedisce di guardare il lato grottesco delle persone. Per superare questa cecità è necessario coltivare l’arte del non attaccamento, una virtù del buddhismo, e mantenere un atteggiamento di neutralità fra gli opposti, che Perls chiamava “punto zero” e che ha molto in comune con lo “stare nel vuoto” degli stati meditativi e con la condizione di apatheia ricercata dai Padri del deserto (p.444).

Una proposta, un invito quindi a stare al mondo con consapevolezza, sapendo con chiarezza il peso determinante che linguaggio e immagini possono rappresentare nel nostro modo di essere.

 

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