mercoledì 8 maggio 2024

 

Pensieri

 

POLVERE, INDIZIO DI VITA



Ma di per sé, originariamente e a tutti i gradi, la polvere è un indizio di vita nascente.1

Questa frase sorprendente è contenuta nel saggio di Teilhard de Chardin: Abbozzo di un universo personalista, contenuto nel testo L’energia umana. La tesi fondamentale di questo libro, semplificando al massimo, è che l’evoluzione costatata dalle osservazioni scientifiche ha una precisa direzione di sviluppo, che è la spiritualizzazione della materia. Questo processo ha negli esseri umani il suo momento di consapevolezza e di azione cosciente, affinché la presenza dello Spirito divino da cui tutto procede sia sempre più evidente e sostenga il cammino in avanti verso la Parusia.

Ma perché mi sorprende questa frase? Perché “la polvere”, nel mio immaginario, rappresenta il ritorno allo stato originario puramente materiale del mio corpo morto, mentre de Chardin mi dice che è “indizio di vita nascente”. La polvere, proprio lei. Oppure, potrei dire, proprio io?

Ecco allora che si forma un pensiero diverso riguardo ciò che chiamiamo “materia”, che abbiamo sempre considerato l’elemento passivo e inerte su cui possiamo operare a nostro piacimento per raggiungere i nostri scopi, per realizzare i nostri progetti: la materia è vita, è l’origine stessa della nostra esistenza e tutto ciò che chiamiamo “io” o “noi” si compie nella materia stessa che noi siamo.

È necessario quindi ripensare il nostro modo di considerarla.

Inizialmente pensavo che spiritualizzare la materia volesse significare che, attraverso il mio/nostro operato, ciò che esiste nel nostro mondo dovesse farsi trasparenza dello Spirito presente nell’Universo. Certamente questa è una valida interpretazione, ed è anche quella che ci propone Teilhard de Chardin.

Ma, se prendiamo sul serio la frase in esergo, e diciamo che la polvere è vita nascente, noi diciamo nello stesso tempo che la polvere è spirito, poiché lo spirito è vita. È quindi originariamente che la materia è spirito, non è quindi ciò che ci separa dallo spirito, ciò di cui dobbiamo diffidare perché ci allontana, ci devia, ci trascina lontano dallo spirito che è l’unico nostro bene; spiritualizzare la materia non avviene all’esterno di noi stessi: siamo invitati a renderci conto dello spirito che è la stessa materia di cui siamo fatti, in cui siamo immersi e che usiamo senza questa consapevolezza. .

Troviamo questo pensiero chiaramente espresso nel Vangelo di Marco 7, 14-23: “Poi chiamata la folla a sé, diceva loro:«Non c’è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa contaminarlo; sono le cose che escono dall’uomo quelle che contaminano l’uomo». Quando lasciò la folla ed entrò in casa, i suoi discepoli gli chiesero di spiegare quella parabola. Egli disse loro:«Neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che dal di fuori entra nell’uomo non lo può contaminare, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e se ne va nella latrina?». Così dicendo, dichiarava puri tutti i cibi. Diceva inoltre:«È quello che esce dall’uomo che contamina l’uomo; perché è dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono cattivi pensieri, fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, frode, lascivia, sguardo maligno, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive escono dal di dentro e contaminano l’uomo»”.

Materia e spirito sono i nomi che noi assegniamo a differenti percezioni attraverso le quali conosciamo ciò con cui entriamo in relazione, e noi stessi.

Materia è generalmente ciò che cogliamo con i sensi protesi all’esterno, mentre spirito è ciò che sperimentiamo con una sorta di senso interno, che pare esistere indipendentemente dalle limitazioni di tempio e spazio cui sembra invece soggetta la materia. Inoltre, mentre la materia ci si mostra inerte, passiva, senza coscienza, senza vita e libertà, lo spirito ci appare dinamico, attivo, portatore di coscienza, vita e libertà; diciamo infatti: «Lo Spirito soffia dove vuole», e lo paragoniamo al vento, inafferrabile e presente.

Questa sorta di dualismo è però solo un’ipotesi di lavoro, su cui già gli antichi greci si accapigliavano.

Nel nostro secolo la scienza è giunta a mostrarci che ciò che noi chiamiamo materia è una nostra invenzione, una specie di convenzione, come il tempo, che ci serve per definire alcuni aspetti del nostro quotidiano, per vivere in relazione con altre e altri da noi.

Quel che sappiamo oggi sulla materia è che ciò che noi vediamo è frutto di legami energetici tra particelle: non vi è quindi inerzia o passività, ma la materia stessa è dinamica e in grado di mettere in atto aggregazioni libere e in parte imprevedibili.

Questo ci induce a mettere in discussione il dualismo materia/spirito su cui è fondata gran parte della nostra azione e del nostro pensiero: in realtà non vi sono, come riteneva Cartesio, una res cogitans e una res extensa, ma un’unica res, un’unica “cosa”, che non possiamo chiamare sostanza e possiamo solo indicare col termine di vita: la vita accade come unità di ciò che generalmente chiamiamo materia e spirito.

Sento già voci, tra fumi infernali: «Allora sei animista!», oppure: «Panteista!»

Rispettiamo le diverse idee, ma qui non vi è niente di tutto questo.

L’anima, psyché, costituisce la coscienza personale di un essere, la sua autocoscienza; ma l’anima di cui parliamo è quella specificamene umana, certamente anch’essa determinata dalle dinamiche energetiche che si sviluppano nella mente/cervello.

Non possiamo quindi pensare di relazionarci con la materia come facciamo con i nostri simili; questo però non esclude che vi siano delle forme di coscienza diverse da quella umana, generate dagli stessi dinamismi energetici che hanno formato la coscienza umana: stiamo scoprendo solo ora la sensibilità e i modi così vari e ingegnosi delle piante per comunicare e lo stesso mondo animale, man mano che lo osserviamo cercando di dislocarci dal nostro antropocentrismo, ci si rivela molto più consapevole e complesso di quanto credevamo.

Poco o nulla per ora sappiamo del mondo minerale, da cui originariamente si forma la materia organica di cui siamo composti, e il futuro potrebbe riservarci delle sorprese.

Certo, questa diversa consapevolezza riguardo alla materia di cui siamo fatti e in cui siamo immersi ci pone nuove domande e chiede da parte nostra una rielaborazione della reciproca relazione.

La materia ci si offre affinché noi possiamo vivere, è vita in continuo farsi: l’errore che compiamo è utilizzarla come cosa inerte, come cosa morta, mentre vi è in essa una vita, uno spirito che va compreso e rispettato. È quindi il nostro atteggiamento interiore che va mutato: non dobbiamo noi, con i nostri sforzi, spiritualizzare la materia, ma renderci conto dello spirito che vi è in essa fin dall’origine ed avvicinarla non come padroni che fanno di essa ciò che vogliono, ma come elementi dello stesso spirito di cui essa è fatta, accogliendo il suo esistere come un’offerta di comunione da ricambiare, come ospiti presenti alla stessa tavola.

È una prospettiva che induce a una severa revisione delle nostre relazioni con le cose: perché accumulare, perché consumare oltre il necessario, perché inventare futili oggetti a cui diamo un valore di competizione con l’altro, perché non curare la natura che ci ospita, perché non sviluppare la capacità di comunicare e creare amore e bellezza invece che odio e violenza?

Rivoluzionando il nostro rapporto con le cose, cogliendone lo spirito di cui sono fatte, il nostro cuore sarà in sintonia con tutto il creato, non produrrà più “cose cattive”. E la polvere continuerà ad essere sempre “indizio di vita nascente”.

Lo Spirito è quindi un’energia operante nell’Universo? È anche fisicamente riconoscibile per certi aspetti?

Con Teilhard de Chardin potremmo dire di sì: nell’Universo è all’opera l’energia dello Spirito, che si addensa e prende forma.

Ma, a mio parere, non siamo soggetti a un evoluzionismo escatologico, in cui l’uomo ha il dovere di agire per portare a compimento la spiritualizzazione del cosmo, che è il fine di ciò che esiste, il motivo del passato che ci sta alle spalle: è questa la visione di Teilhard de Chardin.

Non dobbiamo collaborare alla spiritualizzazione della materia, perché la materia è già spirituale: ciò che gli esseri umani devono ancora fare è accorgersene, attraverso la scienza, la tecnica e l’esperienza personale e collettiva.

Si tratta quindi di mettere in opera un radicale cambio di prospettiva, che è proprio quello proposto dai Vangeli: un sovvertimento di valori che può cambiare totalmente il nostro modo di vivere. Sarà necessario rileggerli attentamente da questo punto di vista.

Ciò che hanno colto gli evangelisti è una diversa relazione di Gesù con la materia, con ciò che ancora chiamiamo corpo e anima: i miracoli sono una narrazione di questo, la stessa resurrezione ne è testimonianza..

Ma l’indicazione fondamentale sulla vita la troviamo nel Vangelo di Matteo 6, 26-29: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.»

Significa che dobbiamo essere passivi, non fare niente? È proprio questo che fanno gli uccelli e i gigli del campo? No. Essi vivono la loro vita, crescono, si sviluppano, ci intrattengono con i loro canti e danno gioia ai nostri occhi, oltre a svolgere importanti funzioni di equilibrio ecologico che garantiscono anche la nostra esistenza: sono una manifestazione di gloria, una gloria molto maggiore di quella che ogni essere umano possa concepire, addirittura superiore a quella del più glorioso tra i re: Salomone.

Ce lo ha già detto Ireneo: “Gloria di dio è l’uomo vivente!”. Ognuno di noi è quindi, come gli uccelli del cielo e i gigli del campo, una manifestazione della gloria di Dio: Gesù ci dice di vivere consapevoli di questa grazia originaria, secondo giustizia, oggi, qui, insieme.

Quindi il nostro compito fondamentale è vivere: siamo lode di gloria.

La stessa morte in questa ottica perde il suo pungiglione, perché, pur con tutto il carico di sofferenza e dolore che porta con sé, non è un’estinzione totale: fa parte della stessa vita.

Tutto ciò che non si radica in questa verità primordiale, ha perduto il senso del suo esistere.

E la domanda di Gesù: «Non contate voi forse più di loro?», è, molto probabilmente, una divina ironia.

1T. de Chardin, L’energia umana, Nuove Pratiche Editrice, Parma 1997, 60.


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lunedì 6 maggio 2024

 


Immagin-azione


NON HA COMANDANTE LA MIA NAVE



Non ha comandante

la mia nave.


Si dondola lieve alla brezza

e s’inabissa alla tempesta,

corre

sulle ali del vento

e si placa

alla bonaccia.


È forse solo

una barca,

più grande a volte,

con tanta gente a bordo,

spesso

una piccola barca da pesca

senza reti né ami.


Non cerca un approdo,

ma soste,

perché sa che il viaggio

è il suo destino;


così ogni istante

negli oceani o nei mari,

nei laghi o nei fiumi,

un delirio di gocce

è il suo canto di gioia.


Non ha comandante

la mia nave.




martedì 30 aprile 2024

 

Sentieri


Teilhard de Chardin: discesa nell’abisso




Nella nostra ricerca sul Mistico abbiamo parlato a più riprese dell’esperienza di abbandono di ogni certezza che affronta chi ha il coraggio di penetrare nella propria interiorità. Il cammino necessario per giungere al fondo di sé stessi viene narrato da molti santi e guide spirituali, poeti e artisti; raro è trovarne testimonianza in persone che abbiano dedicato la loro esistenza alla ricerca scientifica. È quindi grande l’interesse che riveste la narrazione di questa esperienza che il padre gesuita Teilhard de Chardin (Orcines, 1881- New York 1955), paleontologo affermato e uomo di scienza, ci ha presentato nel testo L’ambiente divino1: dentro di noi incontriamo il mistero della vita stessa e questo ci lascia in preda all'angoscia, alla vertigine dell'immensità che potrebbe disperderci nella molteplicità dell'esistente se, dal fondo del nostro stesso abisso, non sorgesse una voce che ci immette in una impensata comunione.  
...Dunque, per la prima volta forse nella mia vita (sebbene si ritenga che io mediti tutti i giorni!), ho preso la lampada e, lasciando la zona apparentemente chiara delle occupazioni e relazioni quotidiane, sono sceso nel più intimo di me stesso, in quell’abisso profondo dal quale sento confusamente emanare la mia capacità di agire. Ora, a mano a mano che mi allontanavo dalle evidenze convenzionali che illuminano superficialmente la vita sociale, mi rendevo conto che la mia vita profonda mi sfuggiva. A ogni gradino che scendevo, scoprivo in me un altro personaggio, di cui non potevo più dire il nome esatto, e che non mi obbediva più. E quando fui costretto a porre fine alla mia esplorazione perché la strada veniva meno sotto i miei passi, vi era, ai miei piedi, un abisso senza fondo dal quale scaturiva, venendo da chissà dove, il flusso che oso pur chiamare la mia vita2.
[...]Noi possiamo pure, progressivamente, delineare lungo il corso delle generazioni, le parziali antecedenze del torrente che ci travolge. E possiamo inoltre, con certe discipline o certi eccitanti, fisici o morali, regolarizzare o ampliare il varco attraverso il quale lo stesso torrente irrompe in noi. Ma né con quella geografia, né con questi artifici, riusciremo mai, sia con il pensiero che con la pratica, a captare le sorgenti della vita […]. In ultima analisi, la vita profonda, la vita fontale, la vita allo stato nascente, ci sfuggono assolutamente.
Tutto commosso dalla mia scoperta, ho voluto allora risalire verso la luce e dimenticare l’inquietante enigma nel confortevole ambiente delle cose ben conosciute, - ricominciare a vivere in superficie, senza più sondare imprudentemente gli abissi. Ma ecco che, sotto lo spettacolo stesso delle agitazioni umane, l’Ignoto al quale volevo sfuggire è riapparso ai miei occhi ormai divenuti attenti. Questa volta, non si nascondeva più in fondo a un abisso; si dissimulava nell’intreccio vario e complicato dei casi che tessono la stoffa dell’Universo e della mia piccola individualità. Ma era proprio lo stesso mistero: io l’ho riconosciuto.
[…] Ho provato la vertigine quando ho preso coscienza di essere un altro, anzi un altro più grande di me. Ma l’ho provata anche di fronte alla suprema improbabilità, alla formidabile inverosimiglianza di trovarmi esistente, in seno a un Mondo ben riuscito. In quel momento, come chiunque vorrà tentare la stessa esperienza interiore, ho sentito su di me incombere la disperazione essenziale, quella dell’atomo smarrito nell’Universo, la stessa disperazione che, tutti i giorni, fa affondare tante volontà umane sotto il numero schiacciante dei viventi e degli astri. E se qualche cosa mi ha salvato, è stata solo la voce evangelica, riconfermata da tanti successi divini, la voce che, dal profondo della notte, mi diceva:«Ego sum, noli timere.» (Sono io, non avere paura.)3.

1T. de Chardin, L’ambiente divino, Il Saggiatore di Alberto Mondadori Ed., Milano 1968.

2Ivi, 73.

3Ivi, 74-75.

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giovedì 18 aprile 2024

 

Pensieri

 

BUDDHISMO ZEN E INTERIORITA’



Il Mistico, che abbiamo imparato a cercare seguendo il pensiero di Edith Stein, è il nome che abbiamo dato a ciò che sta oltre la soglia del proprio io psichico, del piccolo mondo nel quale mettiamo in scena i nostri attaccamenti. Quel che troviamo oltre la soglia sono “i pensieri del cuore”, l’originario formarsi senza parole della vita che ognuno di noi è, una realtà che percepiamo confusamente come certa, ma della quale non possiamo racchiudere in piccole scatole di parole l’immensità avvolgente. Muovendoci verso l’esterno a partire da questo luogo originario, le percezioni e i pensieri di cui facciamo esperienza non sono più funzionali al nostro piccolo mondo egoistico, ma sono in grado di aprirci ad una fraternità di dimensione cosmica: la vita, in tutte le sue forme, ci viene incontro come un’offerta gratuita, una gloria inaspettata che suscita gioia, amore, rendimento di grazie.

In questo luogo indicibile che, come il mare, non possiamo trattenere tra le mani, entriamo attraverso la nostra interiorità. Ma cos’è l’interiorità di cui parliamo?

Il filosofo coreano Byung-chul Han sostiene che l’interiorità è proprio ciò che va superato, perché in essa si alimenta il nostro io, è la “nostra” casa che difendiamo dall’altro e che necessita di una oculata economia per sopravvivere; è quindi il luogo dove facciamo i conti e di cui difendiamo i confini. È quindi il luogo di origine di tutti i conflitti. Per avere pace dobbiamo liberarcene.

La visione del mondo buddhista zen non è rivolta verso l’alto né gravita intorno a un centro. Manca in essa il centro che tutto domina, o si potrebbe anche dire che il centro è dappertutto. Ogni essente costituisce un centro. In quanto centro gentile che non esclude nulla, rispecchia in sé tutto. L’essente svuota se stesso della propria interiorità (ent-innerlicht), si apre in modo illimitato a una vastità senza confini: “Dobbiamo scorgere l’intero universo in un unico granello di polvere”. Così l’intero universo fiorisce in un unico fiore di pruno.
Quel mondo che trova posto in un unico granello di polvere è di certo svuotato di ogni “senso” teologico-teleologico. Esso è vuoto anche nel senso che non è occupato né dal theos né dall’ anthropos.1

Uomo e dio sono dei centri di potere, nei quali non è possibile, proprio perché definiscono degli spazi propri, l’accoglienza gentile di tutto ciò che esiste. Liberarsi dell’interiorità significa abbandonare la propria casa, mettersi in cammino per nessun luogo e condividere l’esistenza con tutto ciò che si incontra fino a che la grande morte non ci riassorbirà nel tutto da cui veniamo.

L’essere in cammino, il non dimorare in alcun luogo, si congeda da ogni forma di trattenimento. E ciò non riguarda solo il rapporto con il mondo, ma anche il rapporto con se stessi. Non dimorare in alcun luogo significa non avere attaccamento verso di sé, non chiudersi ostinatamente in se stessi, dunque è abbandonarsi, lasciar andare se stessi, accettare anche la propria caducità nel bel mezzo della caducità di tutte le cose. Questo abbandono è la costitutiva disposizione del cuore che non dimora in alcun luogo...
Quella casa che si tratta di abbandonare a favore del non dimorare in alcun luogo non è un semplice spazio protettivo. È il luogo dell’anima e dell’interiorità, là dove mi compiaccio e mi avvolgo in me stesso; è lo spazio del mio potere e della mia proprietà, là dove sono in possesso di me stesso e del mio mondo.2

Ma cosa accade concretamente quando si intraprende questo cammino?

Il cuore che non dimora in alcun luogo, che non si attacca a nulla, aderisce al mutamento delle cose: non resta uguale a se stesso. Il non dimorare in alcun luogo è un abitare mortale. Il cuore che non resta attaccato a nulla, sciolto da ogni vincolo, non conosce né gioia né pena, né amore né odio. Il cuore non dimorante in alcun luogo è in un certo senso troppo vuoto per poter amare o odiare, gioire o soffrire. La libertà del distacco radicale presenta una singolare in-differenza (In-Differenz). In questa indifferenza (Gleich-Gultigkeit) il cuore è gentile e amichevole nei confronti di tutto ciò che viene e va.3

Questa è certo una liberazione, la massima forse raggiungibile dall’essere umano: nulla più possiedo né mi possiede, sono tutte le cose e tutte le cose sono me: l’io è totalmente estinto, l’interiorità non esiste più, la sua morte è compiuta.

Quando ciò accade è possibile l’ospitalità, poiché la casa che viene abitata a quel punto non ha più confini, si trova ovunque senza alcun possesso, così che tutto ciò che si incontra nel cammino itinerante dell’esistenza può essere accolto con gentilezza amichevole.

Il non dimorare in alcun luogo implica il Sì nei confronti del dimorare. Ma questo dimorare è passato attraverso il No del “nessun luogo”, del vuoto, è passato attraverso la morte. Quanto al “contenuto”, il mondo è lo stesso. Ma, gravitando intorno al vuoto, è diventato più leggero. Grazie a questo vuoto l’abitare diventa itinerante. Il non dimorare in alcun luogo non è dunque la semplice negazione della casa e dell’abitare. Piuttosto, apre una dimensione originaria dell’abitare. Fa abitare senza essere a casa presso di sé, senza insediarsi in se stessi, senza attaccamento verso se stessi e verso il proprio possesso. Apre la casa, la intona alla gentilezza amichevole. La casa perde con ciò la sua dimensione di economia domestica, l’angustia dell’Interieur e dell’interiorità. La casa si de-interiorizza per diventare un luogo di ospitalità.4

Questa tranquilla accoglienza gentile, non attraversata da emozioni né da grandi speculazioni, abita il quotidiano come suo luogo originario, dove l’unico senso è viverlo, così come un haiku è semplice trasparenza del mondo, senza significati nascosti da svelare o scoprire.

L’interiorità di cui ci parla Byung-chul Han è però solo un aspetto dell’interiorità che intendiamo quando parliamo de Il Mistico. Si tratta infatti dell’interiorità psichica, che certamente ha necessità di compiere il cammino di liberazione a cui invita il nostro filosofo per giungere al vuoto di sé che permette l’accoglienza gentile di tutto ciò che esiste. Questo percorso non è mai concluso, fino alla morte definitiva, la grande morte, perché sempre lungo il cammino è necessario liberarsi dagli attaccamenti che di volta in volta ci attirano.

Ma, in parallelo a questo viaggio psichico di liberazione, a questa morte continua che ci tiene nel vuoto, può avvenire anche una resurrezione: sentimenti ed emozioni, superata la soglia dello psichico, possono esprimersi come parte bella della vita e ricostituire un essere umano integrale, in grado di muoversi nell’esistenza a tutti i livelli perché sostenuto dall’esperienza di qualcosa che dà sapore all’esistenza: l’amore. Ciò che fa essere tutto ciò che è, non è una cieca casualità, il rispecchiamento egoistico di un dio geloso, oppure una continua lotta fra principi opposti che celebrano alternativamente le loro vittorie: ciò che fa sì che la vita sia lo chiamiamo con il nome più semplice e originario: amore, da cui scaturisce la gioia. La gioia e l’amore che sperimentiamo ne Il Mistico non sono più sentimenti intimistici, rivolti al proprio piccolo io, ma costituiscono l’energia inesauribile della vita che si diffonde senza limiti. L’amore vissuto ne Il Mistico è liberante per sé ma anche per la totalità del cosmo in cui si è immersi, fonte di gioia raggiante e creativa: nel momento in cui sono trasparenza di tutto ciò che esiste e il quotidiano diviene luogo della ospitale liberazione gentile, l’origine della vita in me riprende vigore e di nuovo tutto può iniziare, continuamente, senza sosta: sono reintegrato nel dinamismo della creazione che si espande in un dono reciproco tra me e ciò che esiste, manifestandosi come rendimento di grazie, come eucarestia senza fine.

I viaggi interiori ne Il Mistico non si esauriscono in sé stessi: vi è un andare e un tornare, ma ad ogni ritorno tutto si rinnova pur non uscendo da quel quotidiano che è la nostra più propria dimora. 

1Byung-chul Han, Filosofia del buddismo zen, nottetempo 2018,2022, 19-20. (Il grassetto è mio).

2Ivi., 100.

3Ivi, 105.

4Ivi, 109-110.

#buddhismozen #interiorità #ByungchulHan #IlMistico #filosofia #loredanaamaliaceccon #sentieridellogos.blogspot.com

lunedì 1 aprile 2024

 

Pensieri

Giungere a Il Mistico



Ora sappiamo che esiste un luogo da cercare, dentro di noi, dove la vita trova senso.

Ce ne hanno parlato i mistici delle diverse religioni, i cercatori spirituali di ogni latitudine; ce ne hanno parlato e ce ne parlano i poeti. che hanno il coraggio di far sentire la loro voce dalle distanze oceaniche dei loro abissi o nei silenzi in cui la natura li immerge in abbracci indimenticabili.

Questo luogo senza dimensioni e localizzazioni precise è una realtà interiore che continuamente tenta di farsi presente, di penetrare il muro di opinioni, abitudini, certezze e presunzioni che non ci fa andare oltre ciò che ci è già noto. Ma ciò che ignoriamo fa parte della nostra vita, bussa alla nostra porta, pur senza un volto definito, immutabile e certo.

A volte lo percepiamo come un bussare indistinto, quasi un fruscio d’ala sulla porta, a volte è quasi un tuono che scuote i cardini; ma non c’è vita che, almeno una volta, non abbia avuto sentore dell’esistenza de Il Mistico..

Quando si ha il coraggio di aprire la porta, di guardare oltre la soglia per cercare di percepire ciò che sta oltre, la vertigine può prenderci, il terrore, oppure un senso d’angoscia e una irrefrenabile voglia di fuggire, perché al di là della soglia quello che appare a prima vista è soltanto il vuoto.

Certo, in qualche modo lo sappiamo: dovremmo abbandonarci a questo nulla, come nelle piscine di Lourdes ci si deve lasciar completamente andare nel vuoto dietro di noi, senza chiederci se saremo afferrati oppure no prima di sfracellarci al suolo.

E di fatto è proprio a una esperienza di morte che ci troviamo dinnanzi quando si apre la soglia verso Il Mistico. Ma non è la morte come ce la dipingono gli horror e i thriller che pullulano nei nostri programmi televisivi: quella è morte che accade lontano dal Mistico, l’incubo di una malattia interiore che sogna con lo stomaco zeppo di spazzatura e inutilità.

La morte che accade nel cammino verso il Mistico è una esperienza di liberazione, di illuminazione, di sviluppo di potenze insite nella vita stessa.

Liberazione perché, per poter individuare i passi necessari a giungere in questo luogo, dobbiamo liberarci dalle zavorre dei nostri attaccamenti, che ci succhiano come le zecche il sangue e ci lasciano sfiniti ed esangui; ogni attaccamento, a qualsiasi cosa, è come una catena che rallenta il nostro cammino. Abbandonare gli attaccamenti non vuol dire che dobbiamo abbandonare il mondo, le famiglie, la nostra storia, ma solo che dobbiamo imparare a vivere ogni istante come se tutto ciò che ci sembra assolutamente necessario non fosse importante, così che potremmo lasciarlo lì, sull’orlo del marciapiede, senza rimpianti. Tutto è importante, ma potrebbe anche non essere, e certamente ad un certo punto non ci sarà. Tutto allora viene vissuto come non dovuto, non imprescindibile, un dono della vita di cui possiamo essere grati. Molto lontano tutto questo dalla ricerca di sofferenze espiatorie, da dolorismi che si compiacciono di se stessi o da pratiche di penitenza che sfiniscono senza portare frutto. Si tratta solo di viaggiare con un bagaglio il più possibile leggero e ci accorgeremo che il viaggio stesso sarà determinato dall’alleggerimento che saremo in grado di mettere in opera, che le tappe si mostreranno man mano che saremo in grado di raggiungerle.

Possiamo pensare a questa liberazione come a una “dieta”, che ci aiuta a lasciare da parte ciò che ci dà inutile peso e zavorra. Certo, le diete richiedono sacrifici, a volte ingenti, ma il risultato è la possibilità di camminare con leggerezza nel sentiero, a volte impervio, che ci conduce a Il Mistico. E ognuno ha la sua di dieta, personalizzata. Ognuno deve scegliere ciò che deve lasciare, in quale momento, con quale ritmo, perché lo scopo non è la sofferenza individuale ma il raggiungimento di un equilibrio che faccia stare bene, che crei le condizioni per un cammino proficuo.

Illuminazione, perché nel momento in cui posso sollevare gli occhi e smettere i guardare i miei piedi che camminano, piegato sotto il peso dei miei attaccamenti, quando sono a buon punto nella liberazione da quelle che Péguy definiva “pastoie”, la vita che mi circonda mi si rivela in tutto il suo splendore e posso contemplare la sua bellezza. La contemplazione è l’esperienza della luce che abita in ogni cosa, in ogni realtà con cui abbiamo a che fare, in noi stessi, ed è ogni volta come se tornassimo là da dove siamo venuti, da cui ogni cosa si è generata: siamo già ne Il Mistico.

Quando si fa questa esperienza si inserisce come costante della vita la pratica della meditazione, che è come un tuffare nella luce i fatti che accadono, ciò che osserviamo, le più minute esperienze di vita. Avviene allora una specie di reazione chimica: alcuni fatti emergono per il loro splendore, anche se ci apparivano a prima vista insignificanti, e altri mostrano la profonda oscurità senza meta alla quale conducono, anche se apparivano interessanti, speciali, particolari e molto coinvolgenti.

È a questo punto che emerge il giudizio che determina le scelte pratiche, ed è proprio la luce il criterio discriminante: accade che non possiamo tirarci indietro quando questa luce viene deturpata, nascosta, cancellata, distrutta, per qualsiasi ragione. Per questo ogni contemplativo non si tirerà mai indietro quando si tratterà di difendere la luce, la vita. Quando si attiva questo dinamismo tra ciò che viene percepito come interno, interiore, e ciò che invece appare esterno, indipendente da noi, siamo giunti al cuore de Il Mistico.

Lo sviluppo delle potenze che sono già presenti nella vita accade quando si giunge nel Mistico, perché lì si attingono le forze primordiali della generazione, quelle che la scienza ancora non conosce se non in parte, ma che fanno compiere gesti e opere straordinarie a persone apparentemente senza alcuna risorsa personale.

La potenza più grande che possiamo sviluppare è quella della preghiera. Non ci rendiamo conto, quando blateriamo richieste e invocazioni pensando solo a noi stessi, che la preghiera è invece l’origine di ogni bene, il legame che si instaura con l’origine da cui veniamo, che opera con noi nel momento stesso in cui la mettiamo in atto. Ogni preghiera, invocazione, elevazione del nostro essere, che è unitamente corpo anima e spirito, ci mette in comunicazione col luogo da cui veniamo, ci unisce alle potenze dell’origine in comunione con le quali possiamo operare, mettere in atto cambiamenti inimmaginabili, personali, comunitari, sociali, economici, tecnologici...in ogni campo della vita. La preghiera che sgorga dalla contemplazione e dalla meditazione, vissute come metodo di approccio all’esistenza, è una potenza di trasformazione interiore che agisce nel mondo, un’energia invincibile, capace di superare ogni ostacolo per giungere ad operare il bene ovunque venga messa in atto.

Ecco quindi le tappe fondamentali per giungere a Il Mistico.

Come si vede finora non ho nominato Dio, né alcuna religione o filosofia in particolare.

Questo perché Il Mistico è un luogo presente in ogni essere umano e mi azzarderei a dire addirittura in tutto ciò che esiste. Gli esseri umani possono averne consapevolezza, ricercarlo, e così giungere a un potenziamento della vita in tutte le sue forme: credo sia questo il senso del vivere.

Per quanto mi riguarda devo testimoniare che sono giunta a questa consapevolezza, nella mia ricerca, all’interno della fede in Gesù Cristo, particolarmente avendo come maestri di vita i mistici carmelitani scalzi: i racconti delle loro esperienze interiori, mi hanno indicato dei percorsi sui quali ho camminato per giungere infine a Il Mistico. Prima di questo ho conosciuto anche la magnifica figura di Milarepa, un poeta, uno dei principali maestri del buddismo tibetano, la cui parabola di vita, narrata in un testo curato da Jacques Bacot1, può essere paradigmatica per chi intraprende un cammino spirituale. Molti però potrebbero essere i riferimenti e ognuno troverà quello adeguato alla propria storia.

Certamente, però, chi giunge ne Il Mistico, comunque vi sia arrivato, coglie senz’altro un’ulteriore potenza: è in grado di vivere un profondo legame fraterno con tutti coloro che, anche in forme diverse, lo hanno raggiunto.

L’augurio e l’impegno è che questa esperienza, e la fraternità che ne è il frutto, si espanda, si faccia universale.

martedì 26 marzo 2024

 

Pensieri


Corpomisticoe resurrezione




Ci siamo lasciati con la riflessione sul lavoro del neuropsichiatra Anil Seth, da cui abbiamo avuto conferma del fatto che il nostro corpo non è uno spiacevole accidente che ci è toccato e che dobbiamo tenere a bada o sotto controllo per raggiungere gli obiettivi di felicità e benessere che ci siamo proposti.

Il corpo è certamente anche un meccanismo, ma non un automa indipendente da noi.

Seth definisce l’essere umano una “macchina bestiale” senza alcun intento offensivo, allo scopo di sottolineare le componenti evolutive che hanno fatto sì che la percezione di sé nel mondo prendesse forma di coscienza di sé, presente nel mondo animale e vegetale; sulla coscienza di quella che chiamiamo “materia” non abbiamo ancora conoscenze certe, pur essendo di essa noi stessi composti.

Il dualismo che ha connotato la nostra educazione fino ad oggi ci rende arduo renderci conto che noi siamo componenti dell’unica vita che in diverse forme si manifesta e che essere vivi è tutto quanto ci è dato.

Nell’ottica della vita come fatto originario e cosmico da cui partire per cercare di comprendere la sua evoluzione, l’incarnazione del Figlio di Dio, Gesù Cristo, acquista un altro spessore, una maggiore semplicità.

La vita si incarna: non c’è niente di più semplice: come potrebbe non farlo? Proprio perché è vita e gli esseri umani con la loro storia sono la forma che essa ha preso nel tempo, la nascita di Gesù Cristo tra gli esseri umani è l’accadere di un fatto in un tempo opportuno, un kayròs, maturato nel corso delle vicende dell’universo. L’uomo Gesù è il Cristo perché le sue parole e le azioni compiute in un popolo messianico, in quel momento hanno potuto potuto essere comprese e portate avanti.

Chi è Dio se non questo corpo umano che fa vedere come sia possibile essere capaci di amore fraterno, di dono di sé, di potenza tale da compiere miracoli, che mostra come la morte donata sia un seme di resurrezione?

Mi rendo conto ora in modo chiaro che i Vangeli non sono miti, non sono chiacchiere, non sono sogni, non sono racconti alterati dal desiderio distorto di uomini e donne illusi, ma che in ogni sequenza narrata è annunciata una consapevolezza diversa dell’umano, una scienza della vita che ancora non si è pienamente sviluppata e che è stata mostrata in piena luce.

Il fatto stesso che Gesù Cristo sia esistito ci dice la fondamentalità del nostro corpo in quanto luogo del nostro essere vivi. “Infatti la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio: se già la rivelazione attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, quanto più la manifestazione del Padre attraverso il Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio!”, proclamava Ireneo di Lione. Vita da Vita, Gesù e il Padre. E Gesù stesso diceva di sé “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.” (Gv 14,6). Nello stesso capitolo Gesù afferma che chi crede in lui, che è la vita, sarà in grado di compiere le stesse opere da lui compiute e ancora più grandi.

E non è forse così per chi ha vissuto fino in fondo questo messaggio? La storia cristiana pullula di donne e uomini in cui si è manifestata una potenza inaudita di trasformazione e di vita; ma anche in altre realtà spirituali che hanno accolto questo mistero vitale si hanno esperienze simili, che nascono dalla percezione dell’unità di cui siamo costituiti.

Mi rendo conto che la parola sembra un’anatra zoppa mentre tento di aprire un varco verso l’intuizione che ogni corpo è “mistico”, nello stesso senso in cui si intende l’insieme dei fedeli come Corpo mistico di Cristo: ogni corpo, così ogni corpo umano, è un’esperienza di unione, meglio sarebbe dire proprio com-unione, ciascuno di noi non è solo sé stesso, con la propria storia e identità, con la propria singolarità, ma è la stessa vita che si manifesta e glorifica sé stessa in relazione con l’universo intero.

La consapevolezza dei meccanismi di allucinazione controllata e di predizione baynesiana, cioè statistica, che il nostro cervello mette in atto allo scopo di farci sopravvivere in una realtà complessa di cui non siamo gli unici utenti, ci mostra il dinamismo della vita di cui siamo parte.

Dice Seth nell’Epilogo al testo di cui abbiamo parlato:

I nostri mondi percepiti sono sia meno sia più di qualsiasi cosa questa realtà esterna oggettiva possa essere. I nostri cervelli creano i nostri mondi tramite processi che portano alle migliori ipotesi bayesiane [statistiche n.d.r.], in cui i segnali sensoriali servono primariamente a tenere sotto controllo le nostre ipotesi percettive che si evolvono di continuo. Viviamo entro un’allucinazione controllata che l’evoluzione ha selezionato non per la sua accuratezza, bensì per la sua utilità.”1
L’ultima sfida è stata vedere che il macchinario predittivo della coscienza ha la propria origine e funzione primaria non nella rappresentazione del mondo o del corpo, bensì nel controllo e nella regolazione della nostra condizione fisiologica. La totalità delle nostre percezioni e cognizioni – l’intero panorama dell’esperienza e della vita mentale umana – è foggiata da un profondo impulso biologico a sopravvivere. Percepiamo il mondo intorno a noi, e noi stessi all’interno di esso, con, mediante e a causa dei nostri corpi viventi.2
Legando la nostra vita mentale alla nostra realtà fisiologica abbiamo dato linfa nuova alle concezioni secolari di una continuità tra vita e mente, rinforzandole con i solidi pilastri dell’elaborazione predittiva e del principio di energia libera. E questa profonda continuità ci ha permesso di vedere quanto noi stessi siamo vicini agli altri animali e al resto della natura e, di conseguenza, lontani dal calcolo disincarnato di IA. Mentre coscienza e vita vanno insieme, coscienza e intelligenza sono separate tra loro. Tale riorientameto del nostro posto nella natura vale non solo per i nostri corpi fisici, biologici, ma anche per le nostre menti coscienti, per le nostre esperienze del mondo circostante e dell’essere chi siamo”3
Comunque vada a finire, seguire questa strada ci permetterà di comprendere moltissime cose nuove sulle esperienze coscienti del mondo intorno a noi e di noi all’interno di esso. Vedremo come il nostro universo interiore è parte del resto della natura, e non separato da esso. E, per quanto non vi pensiamo tanto spesso quanto potremmo, avremo l’opportunità di scender a nuovi patti con quello che succede – o non succede – quando l’allucinazione controllata di essere sé scompare nel nulla. Quando l’oblio non è un’interruzione del fiume della coscienza indotta da un’anestesia, bensì un ritorno all’eternità da cui ciascuno di noi una volta è emerso.
Alla fine di questa storia, quando la vita in prima persona raggiunge la sua conclusione, forse non è poi così male che rimanga ancora un po’ di mistero.”4

A prima vista il lavoro di Seth potrebbe apparire come un riduzionismo dell’essere umano ai meccanismi del cervello, un materialismo che utilizza la fenomenologia per supportare i propri assunti.

Di fatto questo lavoro, che nasce in ambito clinico alla ricerca di soluzioni per gravi sofferenze causate sia da traumi che da stress psicofisici, ci offre la possibilità di considerare una grande verità: il nostro corpo è tutto ciò che abbiamo ed è in esso che ci è data la possibilità di sperimentare e considerare fatti che apparivano legati soltanto ad una esteriorità. Di fatto il modo in cui percepiamo ciò che chiamiamo “mondo esteriore” e le azioni che mettiamo in atto per agire in esso, sono una produzione che nasce dal nostro interno e che unisce il dato originario della coscienza, che non è una caratteristica solo umana, all’intelligenza che si è evoluta adattandosi e progettando il modo migliore per sopravvivere, per vivere più a lungo e meglio. Nel Vangelo di Marco 7, 17-23 troviamo espresso chiaramente questo pensiero: “Quindi soggiunse: Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo.” . Nel nostro interno si elaborano i pensieri e che le scelte da cui dipende la vita nostra e degli altri: le intenzioni cattive sono proprie quelle in cui gli altri, il nostro prossimo, non sono considerati parte della nostra vita.

Cosa significa questo per il credente? Buttiamo nella spazzatura anima e spirito e ci accontentiamo della nostra sopravvivenza biologica? Se la vita fosse solo una temporanea sopravvivenza biologica, l’energia evolutiva messa in atto per giungere alla produzione di pensiero e al controllo che esso opera sugli aspetti fisiologici potrebbe essere considerata uno spreco inutile, una casualità insignificante e senza scopo. Se invece la complessità che si è dispiegata nell’evoluzione sta costruendo pezzo a pezzo un mosaico che va formandosi mano mano che i diversi tasselli vengono avvicinati l’uno all’altro e il cui scopo è un sempre maggiore potenziamento della vita, dobbiamo cambiare la prospettiva del nostro lavoro di pensiero.

Se la vita è tutto ciò che abbiamo e che importa, l’incarnazione passione morte e resurrezione di Gesù Cristo sono un momento fondamentale della sua evoluzione, che vuole portarci ad un superiore livello di coscienza e consapevolezza.

Leggere i Vangeli non è allora un esercizio devoto, il racconto di desideri emotivi e psicologici mal compresi, che conduce ad una estenuazione spiritualistica del nostro esistere. Le parole che sono state scritte riportano un’esperienza concreta di vita e condivisione di sapere, che si compie nella compagnia con un maestro; Gesù annuncia il regno di Dio, la presenza e la necessità di una vita che comprenda sé stessa oltre il limite del proprio recinto e mostra incessantemente, indica continuamente la vita come contenuto e scopo dell’intero cosmo, anche nel passaggio attraverso ciò che chiamiamo dolore e morte.

Non si tratta quindi di una dottrina sulla quale costruire castelli devozionali e pie pratiche, strutture caduche e gabbie istituzionali: nei Vangeli possiamo meditare e fare nostra una sapienza di vita che si è addensata in un momento del tempo e che si sta ancora dispiegando, che in ogni tempo si illumina di nuovi significati in relazione al cammino che la vita dell’universo compie nell’essere umano, nella sua stessa natura.

Oggi sappiamo che, poiché tutto si svolge all’interno della nostra corporeità, in cui il cervello ha elaborato delle dinamiche di previsione e azione utili alla vita, è su queste dinamiche che dobbiamo interrogarci. Il nostro tempo ha scoperto (o riscoperto) da alcuni decenni che le pratiche della preghiera e della meditazione sono portatrici di benessere fisico, psichico e spirituale: se la vita umana vive e si sviluppa su queste tre coordinate la scienza deve necessariamente occuparsene, non per ridurle ad un banale spezzatino di esperimenti più o meno comprensibili, ma per scoprire le radici naturali di un potenziamento della vita che già si è mostrato in atto presso alcune esperienze individuali e comunitarie.

Se la vita ha per scopo sé stessa, tutto ciò che non la rispetta, non la valorizza, non la potenzia è una deviazione: la vita è un affare comune, come cristiani potremmo dire che è comunione. Quindi, come abbiamo visto nel brano citato del Vangelo di Marco, tutto ciò che la chiude entro i confini di un solipsismo egoistico, sia esso individuale, di gruppo, nazionale o ideologico, ne deturpa le possibilità di sviluppo e devia la sua evoluzione verso una inevitabile autodistruzione.

Vivere e far vivere è, quindi, il più bell’atto di fede che ciascuno di noi può compiere.

Ma a vivere con questa consapevolezza si impara giorno per giorno, con il proprio corpo che forma ciò che chiamavamo anima e spirito e che possiamo continuare a chiamare così solo a patto che ci sia chiaro che anch’essi sono il nostro corpo, ed è per questo che crediamo alla resurrezione come fatto accaduto e che continuamente si ripropone: la morte corporale va rivisitata, riletta alla luce della vita nella quale esiste; non è un’estinzione, una cancellazione, ma una trasformazione, un mutamento di stato necessario all’eternità sussistente nella vita stessa: come per i santi, per ciascuno di noi la morte può essere intesa come “una nascita al cielo”, un passaggio della vita, una trasformazione degli elementi di cui siamo fatti, in cui niente va perduto e di cui la vicenda di Gesù Cristo è viva testimonianza.

1Seth A., Come il cervello crea la nostra coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, 283.

2Ivi.

3Id., 284.

4Id., 285-286.

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